Questo articolo si legge, si guarda e si ascolta, perché Tim Burton va vissuto a 360 gradi.
Per chi è cresciuto negli anni ’90 come me, Tim Burton è stato un importante punto di riferimento per la formazione cinematografica di genere. Con le sue pellicole ci ha portati in un mondo disincantato e cupo, malinconico e pieno di buoni sentimenti, senza mai cadere nel paternalismo. Ha trattato temi quali la solitudine e l’emarginazione, facendoci sorridere e commuovere.
Come in tutte le belle fiabe, però, a un certo punto qualcosa si è incrinato e i fan hanno iniziato a guardare con sospetto alle sue opere. Non è un caso che questa frattura corrisponda al cambio di direzione apportato dalla major con cui Burton ha sempre lavorato e intrattenuto rapporti altalenanti, la Walt Disney Company.
L’articolo si propone di analizzare l’impatto che, nella cultura di massa, hanno avuto i film di questo regista, in vista dell’imminente uscita del sequel di Beetlejuice il prossimo 5 Settembre, e quanto le scelte della produzione abbiano influito sulle storie raccontate.
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ToggleLa creatività di Tim Burton
Prima di entrare nel vivo dell’attività di Burton come regista, occorre ricordare quanto sia versatile in ambito creativo e come abbia mosso i primi passi come disegnatore. Ha partecipato alla realizzazione de Il Signore degli Anelli di Ralph Bakshi (1978), occupandosi della pulizia dei rodovetri, particolari fogli in acetato di cellulosa su cui vengono stampati e dipinti i disegni che comporranno la sequenza di immagini del cartone animato; nel 1981, invece, raggiunge la consacrazione come animatore con Red e Toby – Nemiciamici, il ventiquattresimo prodotto Disney secondo il canone ufficiale.
Nel 1985, ha provato a proporre bozzetti e disegni preparatori per Taron e la Pentola Magica, primo film d’animazione Disney che ha fatto ricorso alla computer grafica, ma i suoi lavori furono scartati, anticipando i rapporti instabili con la multinazionale statunitense di cui si parlerà più avanti.
Nel suo libro, The Art of Tim Burton (Greeb Print, 2009), racconta quanto il disegno sia stato fondamentale per visualizzare quello che lui, bambino silenzioso, non diceva a parole. “[L’arte visiva ] per me significa tanto, mostra tutti i processi mentali che hanno portato a creare personaggi e ambientazioni, anche della mia infanzia. Mostra l’evoluzione“.
Un chiaro riferimento a quanto raccontato è Vincent, il suo primo cortometraggio in stop-motion del 1982, in cui il protagonista, un bambino di sette anni, vorrebbe essere come il suo idolo Vincent Price (uno dei maggiori attori di film horror degli anni ’50 e ’60, che Burton riuscì a inglobare nel suo progetto come voce narrante). L’interprete tornerà più tardi, nel 1990, vestendo i panni del creatore del malinconico Edward Mani di Forbice.
Lo Spiritello Porcello
Il lavoro da regista comincia nel 1985 con Pee-wee’s Big Adventure, ma la fama arriverà qualche anno dopo con il bizzarro Beetlejuice – Spiritello Porcello (1988).
“Problemi con i vivi? Stanchi di vedere la vostra casa invasa? Volete liberarvi di quelle odiose creature per sempre? Venite da me, gente morta! Sono il Bio-Esorcista più richiesto! Venite alla mia lapide, sono io quello che fa per voi! Terrorizzo a morte chiunque volete, invento le perfidie più perfide, roba da infarto secco!”
Beetlejuice è l’esorcista dell’aldilà che disinfesta, su chiamata, la casa di Barbara e Adam Maitland. La coppia, dopo la tragica dipartita di cui non si capacitano, si trova a condividere il tetto con la famiglia di Charles e Delia Deetz, nuovi proprietari del loro immobile. La situazione sfuggirà di mano quando Beetlejuice, incontrollabile, vorrà sposare la figlia di questi, Lydia.
Beetlejuice si imprime nello spettatore per la bizzarria della trama, l’istrionismo del protagonista e le ambientazioni grottesche. Combinati assieme, questi sono gli aspetti che caratterizzano il primissimo Tim Burton a cui tutti siamo affezionati. La pellicola è, infatti, il primo vero capolavoro del regista che vanta un cast d’eccezione: Michael Keaton (Beetlejuice), Alec Baldwin (Adam), Geena Davis (Barbara), Jeffrey Jones (Charles), Catherine O’Hara (Delia) e una giovanissima Winona Ryder (Lydia).
Il tutto è consolidato dalle particolarissime musiche del compositore Danny Elfman, amico e collaboratore di Tim Burton dai tempi di Pee-wee’s big adventure. Il sodalizio si inserisce tra le coppie storiche assieme a Nolan/Zimmer, Spielberg/Williams, Hitchcock/Herrmann.
Il vero Uomo Pipistrello?
Nel 1989 con Batman e nel 1992 con il sequel Batman Returns, Burton ed Elfman si cimentano nella trasposizione su pellicola e spartito della storia di uno degli eroi dei fumetti più amato di sempre, Batman della DC Comics. Il compositore ha l’obiettivo di musicare Batman come fosse un fumetto che prende vita con gli ottoni; il regista vuole parlare (in un periodo in cui il termine franchise non esisteva e la pressione dei media era decisamente minore) di un uomo che più che eroe, ha seri problemi di depressione e integrazione.
“Se mi chiedeste la trama di Batman, non saprei dirvela. Riguarda la dualità, i lati opposti, parla di una persona che è completamente fott*ta e non sa cosa sta facendo. Ha buoni impulsi, ma non è integrato. E si tratta di depressione. Si tratta di affrontare la vita, pensando che stai facendo qualcosa, provandoci davvero tanto. E il Joker rappresenta qualcuno che può agire come vuole”.
Nonostante oggi sia uno dei Batman più iconici, ai tempi non voleva essere la trasposizione fedele del fumetto quanto lo spaccato della vita di un uomo che, da un profondissimo trauma infantile, trascina le ferite nell’età adulta non riuscendo a rimarginarle mai per davvero. Secondo il regista, infatti, non esiste il supereroe senza l’uomo e il suo pesantissimo bagaglio emotivo.
Oggi guardiamo le due pellicole in riferimento ai fumetti e con gli occhi nostalgici di chi con Joker, Pinguino e Catwoman ci è cresciuto, ma dalle parole di Burton ci si accorge che il suo intento era un altro. Di certo non gli si può negare una certa lungimiranza nel portare i drammi del Bruce Wayne da quattrocento milioni di dollari in sala, seppur molto velatamente.
I migliori Burton-Depp di sempre
Ancor prima di Elfman, una delle persone che viene in mente nominando Tim Burton è Johnny Depp. I due hanno iniziato a lavorare insieme nel 1990 con Edward mani di forbice e il regista ha dovuto lottare per averlo nel cast, mentre la produzione avrebbe preferito Tom Cruise, all’epoca all’apice della sua carriera.
Depp, che aveva alle spalle la serie Jump 21 Street, A Nightmare on Elm Street e una piccola parte in Platoon, si apprestava a diventare il sex symbol degli anni a venire e voleva già liberarsi di tale immagine. La connessione tra i due è stata immediata, così come l’amicizia che ha portato l’attore a diventare il padrino del figlio del regista, e il regista a consolare l’attore durante la fine del grande amore con Winona Ryder, nato sul set del film.
La storia di Edward è una delle più belle vicende di emarginazione mai raccontate e Depp è stato in grado di trasmettere con il solo sguardo dolore, tristezza, rabbia e malinconia. Si tratta della fiaba più crudele del genio visionario, che ha come protagonista un essere sbagliato per una società omologata che lo addita come mostro. Un’opera biografica che rispecchia la vita del giovane Tim Burton, dai tratti un po’ gotici e i capelli disordinati, incastrata nei salotti di Burbank.
L’amore trova spazio per insinuarsi tra le pieghe, ma non è così forte da vincere e ciò che resta è tornare a vivere nella solitudine e nel ricordo di quello che, per poco, si è riusciti ad assaporare.
I due hanno lavorato assieme in otto memorabili pellicole (tra cui Il mistero di Sleepy Hollow e La fabbrica di cioccolato), che hanno confermato Burton come maestro del gotico e del grottesco, Depp come attore istrionico e profondo.
In occasione della stella sulla Walk of Fame che il regista riceverà oggi 3 Settembre, Depp ha scritto una lettera molto toccante per quelle storie di emarginati incompresi che hanno portato tanta gioia negli spettatori e che noi della vecchia guardia non smetteremo mai di aspettare, consci che il Tim Burton di una volta tornerà. La lettera non è solo un omaggio alla sua carriera, ma anche la testimonianza di un profondo legame di amicizia che perdura nel tempo e supera le difficoltà della vita.
Sotto attacco marziano!
Mars attacks! è il film che non ti aspetti da Tim Burton: truppe aliene invadono la Terra guidate dal loro Ambasciatore e iniziano a decimare la popolazione in nome della conquista. Manca l’ambientazione gotica, mancano le tinte cupe e le storie d’amore tra reietti della società.
Piuttosto la pellicola, che omaggia la fantascienza anni ’50 e i B-movie, è intrisa di sarcasmo e di un tipo di humour nero che ha un preciso obiettivo, comprensibile se inserito nel contesto cinematografico in cui viene prodotto. L’opera, infatti, nasce come antiblockbuster e critica spietatamente quella macchina macinasoldi chiamata Hollywood.
Esce, infatti, il 13 Dicembre del 1996, a pochi mesi dal film cult Independence day (Roland Emmerich), ma non ci sono attori belli che stringono mani al Presidente degli Stati Uniti d’America e sacrificano la loro vita per il bene comune, anzi, è proprio attraverso una stretta di mano che il Presidente viene fatto saltare in aria a pochi minuti dal suo ingresso, così come le star di Hollywood che non possono godere del loro momento di celebrità.
Se non si considerano tali dettagli, sarà difficile apprezzare il settimo lungometraggio del regista e capire perché sia così difficile empatizzare con i suoi protagonisti: Glenn Glose e Jack Nicholson, rispettivamente la first lady e il Presidente, sono persone volutamente sgradevoli e i personaggi che interpretano lasciano il tempo che trovano, sotto i riflettori della fama e del potere.
Storia di una vita incredibile
Freaks è un termine inglese usato per designare “esseri abnormi o scherzi della natura”. Fanno il loro ingresso sul grande schermo nel 1932, con quel controverso film (Freaks, appunto) che mise in luce le deformità dei suoi protagonisti. Anche Tiziano Sclavi ne ha recuperato il tema in ambito fumettistico, con il numero 81 di Dylan Dog ma, piuttosto che deridere il “diverso”, ci ha portato a empatizzare con lui.
Nessuno, però, è stato in grado di dare dignità ai cosiddetti fenomeni da circo come Tim Burton in Big Fish – Le storie di una vita incredibile (2003). Dopo Beetlejuice, il regista aveva lavorato a progetti che sentiva poco personali e, quando arrivò l’offerta di lavorare a questo film, aveva da poco perso entrambi i genitori. Nonostante non vivessero in ottimo rapporti, i lutti lo segnarono profondamente e adesso aveva l’occasione di parlare di rapporti familiari, raccontando storie grottesche e surreali per bocca di Edward Bloom (Albert Finney/Ewan McGregor).
Big Fish, inoltre, permette a Burton di mettere in luce una triste verità che riguarda tutti noi: quando raccontiamo qualcosa ad alto impatto emotivo a qualcuno, tendiamo a ingigantirla e infarcirla di dettagli inesistenti tanto che, noi stessi, perdiamo il contatto con la realtà e la mescoliamo alla fantasia.
Il film ci porta con leggerezza nella mente di un uomo che, a furia di raccontare storie, è diventato quelle storie stesse e ci spinge a domandarci se crederci o meno, decidendo così che tipo di persone essere e che vita vivere. Lo storytelling diventa in tal modo il protagonista del film e ci insegna che di qualunque natura siano le fiabe sono destinate a rimanere immortali tramite le parole.
Il capolavoro di Tim Burton si imprime nella memoria per i colori che sprigiona la fotografia e per la colonna sonora che, oltre al fidato Elfman, vede protagonista Eddie Vedder, frontman dei Pearl Jam che ha composto Man of the Hour dopo aver visto il film.
Tim sperduto nel Paese delle Meraviglie
Alice nel Paese delle Meraviglie (1951), tratto dal controverso romanzo di Lewis Carroll (1865), è il dodicesimo film d’animazione Disney, nonché uno dei più bizzarri per la materia trattata: una bambina si addormenta e precipita in un mondo abitato da strane creature che la aiuteranno, in modi affatto gentili, a responsabilizzarsi.
L’adattamento in live action di Tim Burton, di cui si iniziò a parlare nel 2008, gettò i fan nell’estasi perché avrebbe dato modo al regista di esprimere tutto il suo estro creativo. Chissà che lettura in chiave gotica avrebbe dato al classico e quanto avrebbe reso memorabili il Brucaliffo e il Bianconiglio… con tutte queste aspettative, non avevamo fatto i conti con la casa di produzione dietro il film.
Purtroppo, le attese sono state disilluse perché Alice in Wonderland (2010) si è rivelato un film debole, in primis nella sceneggiatura: dopo quindici minuti, rivela l’esito della missione della protagonista che ha poco da imparare in questo Sottosopra. L’Alice di Burton, infatti, diventa mera esecutrice di un compito: sconfiggere il Ciciarampa, destituire la Regina Rossa (Helena Bonham Carter) e riportare la corona sul capo di una esagerata, quanto ripetitiva nelle movenze, Regina Bianca (Anne Hathaway).
Lungi da me voler confrontare il film con il cartone animato, o addirittura con il romanzo, ma quando la Disney avalla progetti non si può non guardarli con occhio particolarmente attento per capire quanto possa interferire con le linee guida dei registi. E in questa reinterpretazione del classico, di burtoniano c’è ben poco; perfino lo Stregatto perde la sua pungente saccenza.
Contavamo su Johnny Depp, ma il suo Cappellaio Matto, seppur magistrale nel cambiare repentinamente espressioni e atteggiamenti, sembra un personaggio a metà tra Willy Wonka e Jack Sparrow. Togliamo il cappello e una faccia buffa a quest’uomo e riportiamolo a ruoli meno stereotipati, perché è in grado di sostenerli, come dimostrato in pellicole quali Donnie Brasco (1997) e Secret window (2004).
Frankenweenie, un’eccezione
Il film di animazione in stop-motion del 2012, Frankenweenie, è una boccata di aria fresca dopo il lento declino del regista, iniziato con Alice in Wonderland e continuato con il dimenticabilissimo Dark Shadows (2012). Occhi attenti però capiranno subito che, seppur piccola perla della cinematografia animata, il film ricicla l’omonimo cortometraggio del 1984 dello stesso Burton.
Il piccolo Victor Frankenstein decide, attraverso la scienza, di riportare in vita il suo cane, non accettandone la morte. Oltre al caposaldo della letteratura horror di Mary Shelley, Burton recupera le figure di Dracula e Vincent Price che somiglia, nelle fattezze, al professore di scienze del bambino, e omaggia pellicole storiche come Frankenstein Junior, Godzilla e Van Helsing, con Easter egg sparsi qua e là nella pellicola.
Purtroppo il film non ha avuto il successo che meriterebbe, probabilmente perché anacronistico e fuori tempo massimo per un pubblico giovane, che nella seconda decade degli anni Duemila non era pronto a un film vintage e, a tratti, naif come Frankenweenie.
Il lungometraggio rappresenta un ritorno alle origini e la necessità di esprimersi libero dai vincoli imposti dalla casa di produzione per cui ha quasi sempre lavorato. La conferma di questo bisogno di rinnovamento arriverà qualche anno dopo, con la trasposizione cinematografica di un altro classico dell’animazione Disney.
Via da casa Disney senza piuma magica
Dumbo (2019) rappresenta la svolta nella filmografia di Burton, non tanto per qualità, quanto per la decisione di allontanarsi dalla casa di produzione con cui lavorava da sempre. Sarebbe opportuno chiarire che tra i due i rapporti sono stati sempre altalenanti, poiché lo stile del regista non è sempre stato in linea con i prodotti tipicamente Disney.
Basti pensare al caso del marchio Touchstone Pictures su cui, dal 1984 al 2018, i Walt Disney Studios hanno dirottato e commercializzato pellicole non appositamente per un pubblico bambino. The Nightmare Before Christmas (1993), diretto da Henry Selick, ma partorito dalla mente visionaria di Burton, dovette aspettare undici anni prima di essere approvato dalla casa di produzione, a patto che venisse distribuito dalla Touchstone.
Ma la storia di Jack e Sally dal Regno delle zucche non è il solo esempio. Gran parte dei film qui analizzati sono molto poco Disney e, forse, Mars Attacks! è il caso emblematico perché critica apertamente tutto ciò che di “buonista” e politicamente corretto ormai gli Studios producono. Non è un mistero che ormai tutto si sia compattato, omologato e, soprattutto, come dimostrano gli ultimi lavori degli universi Marvel e Star Wars tra film e serie tv, orientato alla quantità piuttosto che alla qualità.
Alla luce di ciò, il regista ha deciso di abbandonare, almeno per il momento, la storica collaborazione, perché come sostiene “[···] C’è meno spazio per diversificare su piccole cose. Posso occuparmi di un solo universo, non posso affrontare un multiverso”.
Dumbo, se letto con questa chiave, diventa il film autobiografico di un uomo che non riesce a trovare il suo posto in società, “[···] una creatura meravigliosa, bullizzata per la sua diversità. È un deriso, un escluso che però riesce a trasformare il suo punto debole in una carta vincente“.
Nella figura del pachiderma torna lo spettro della sua carriera, negli spettatori del circo torna, invece, il peso della sua infanzia: “L’America del 1960 promuoveva l’ideale di una famiglia perfetta: padre lavoratore, madre casalinga, due figli, villetta con giardino, cane, quiete. I miei si sforzavano di incarnare quel modello, ma non ci riuscivano e si deprimevano“.
Aspettando Beetlejuice Beetlejuice
Il cambio di direzione adottato da Tim Burton e la voglia di tornare a raccontarsi come un tempo fanno ben sperare per un sequel di cui non sentiremmo il bisogno, ma che incuriosisce tutti. Cosa aspettarsi? Sicuramente sarà un gran bel revival perché gran parte del cast è rimasta inalterata, eccezion fatta per la nuova compagna del regista dal 2023, Monica Bellucci, e Jenna Ortega, la Mercoledì che ha rivitalizzato la passione del regista per il cinema.
Non resta che aspettare e vedere il film, con il solito buon proposito di lasciare ciò che è stato nel 1989 e guardarlo con gli occhi degli spettatori del 2024, perché uno dei compiti dei registi è anche quello di adattare le pellicole al pubblico di riferimento, che oggi più che mai è in continua evoluzione.