Recensione di Pacific Rim: La Zona Oscura

Avete visto la serie Netflix Pacific Rim: The Black? Questa serie è conosciuta in Italia come Pacific Rim: La Zona Oscura e quella che andiamo a presentare è la nostra recensione. Attenzione però, parlando dell’opera in tutta la sua interezza non possiamo evitare spoiler, per cui consigliamo solo ai più temerari di avventurarsi nella lettura.

Se vi piacciono i kaijū però potete tranquillamente leggere di Gamera qui, trovare qualche consiglio su i film di Godzilla qui e, se proprio vi piace il genere, potete dire la vostra sulla nostra classifica dei peggiori nemici di Godzilla qui e la recensione del suo gioco da tavolo qua.

Ed ora, giù a giudicare Pacific Rim!

 

La trama di Pacific Rim: La Zona Oscura

Ci troviamo in Australia – la nazione che da sola ha più animali mortali di tutto il mondo conosciuto e sconosciuto – qualche anno dopo gli eventi dell’ultimo film (Pacific Rim: La rivolta); cosa potrebbe mai mancare ad una terra così pericolosa? Beh, i kaijū ovviamente.

Nonostante la strenua resistenza del popolo australiano contro le forze di invasione, la nazione purtroppo cade e facciamo la conoscenza di Taylor ed Hayley, fratello e sorella: i genitori li hanno abbandonati nel deserto presso una colonia sopravvissuta, per andare a cercare aiuto. Nel gergo della trama potremmo anche tradurla con “vanno a morire male da qualche parte”, ma a questo ci arriveremo piano piano.

Hayley, si mostra subito come il personaggio che vuole uscire fuori dalla zona sicura per esplorare il mondo e trova una vecchia base militare. Al suo interno è conservato uno Jaeger per l’addestramento dei giovani cadetti delle accademie, dal nome di Atlas Destroyer. Praticamente un fantoccione senza pile e senza armi che sarà utilizzato principalmente come mezzo di trasporto.

 

pacific rim la zona oscura
Quel kaijū non li preoccupa perché in Australia hanno ragni più grossi!

 

Perché hanno bisogno di un mezzo di trasporto? Beh, perché attivando Atlas Destroyer Hayley attiva anche l’allarme della base, richiama un kaijū di categoria IV, e condanna tutta la colonia a morte. Questo letteralmente perché il kaijū li schiaccia uno ad uno, pur non spiaccicandoli a terra e lasciando i corpi intatti e più puliti di prima… ma questa è colpa delle animazioni.

Avendo bisogno della batteria i due fratelli si avventureranno verso la città e troveranno: un bambino albino in un laboratorio, un cattivone di nome Shane che è un po’ il boss della zona oscura, e Mai, un’assassina addestrata da Shane e cresciuta da quest’ultimo come fosse un amorevole padre; un amorevole padre che le ha ucciso la famiglia e fatto il lavaggio del cervello per renderla un’arma. Quando c’è l’amore c’è tutto.

Tutta la serie prosegue tra cliché ed animazioni non troppo ispirate, fino al ritrovamento dello Jaeger dei genitori di Tylor ed Hayley. Ovviamente distrutto dall’ultima battaglia, ma sembra che i genitori siano riusciti a salvarsi abbandonandolo. Quella stessa zona sarà teatro della battaglia finale contro il kaijū del primo episodio, che li ha inseguiti per tutto il tempo.

Parlato della trama, arriviamo per gradi ai pro e ai contro della serie.

 

Non sempre si può vincere

Pacific Rim è un franchise che può dare molto, ma in questa serie purtroppo non ci si focalizza sulle cose davvero buone. Mi ha ricordato per tanti versi il primo film.

C’è davvero parecchia carne sul fuoco, ma purtroppo la cottura lascia molto a desiderare. Ci troviamo di fronte pochi personaggi scritti bene, ma gestiti male, situazioni piene di pathos rovinate da scelte narrative molto discutibili, e animazioni che mi hanno ricordato i Super Robot Wars della Playstation 2. Avrei voluto dire gli Zone of Enders o gli Armored Core, ma questi erano animati meglio.

Il primo problema è con i due protagonisti. Sono dei ragazzi, hanno bei momenti insieme Taylor ed Hayley, ma anche loro fin troppo spesso dimenticano chi sono. Nella serie hanno due picchi altissimi a livello di narrazione: nel primo, proprio all’inizio del secondo episodio, in un collegamento neurale tra i due veniamo a scoprire che nel profondo Taylor è arrabbiato talmente tanto con sua sorella, da darle la colpa per la morte dei loro compagni (cosa vera perché è all’effettivo colpa sua). Questa cosa poi passa completamente in sordina con un perdono così rapido, da fare invidia ai Volemosebene-no-Jutsu visti in Naruto e L’Attacco dei Giganti.

 

Atlas Destroyer
Atlas Destroyer. Bello… ma il colore… MEH!

 

Il secondo picco che hanno è nell’ultimo episodio in cui, trovando un posto sicuro insieme a Mai, si dedicano ad un ballo spensierato insieme al ragazzo-kaijū che ascolta, per la prima volta nella sua vita, la musica. Il momento è stupendo perché ti ricorda che loro sono due ragazzini che non arrivano a vent’anni, e non vogliono trovarsi in mezzo a tutto questo. Un po’ come, in un’altra grande opera, Koji Kabuto mostra la stessa umanità, salendo per la prima volta su Mazinger Z a sedici anni e si rende conto di aver schiacciato alcuni degli abitanti della città in cui si è svolta la prima battaglia, ma sollevando la mano del mecha caduto Kabuto ritroverà sul palmo i corpi maciullati di innocenti passanti che grondano sangue. Ma la scena risulta ridicola a causa delle animazioni imbarazzanti.

Shane, che è un cattivo veramente cattivo, senza rimorsi e senza scrupoli, e tiene solo a Mai (se pur torturata psicologicamente, la ritiene davvero una figlia), oscilla tra momenti di altissima levatura nel suo ruolo che a momenti vorrei definire “cringe”, ma che descriverò in italiano come disagiatamente imbarazzante.

E Mai, che dovrebbe essere tormentata per ciò che ha fatto, per come è cresciuta, per l’aver scoperto di essere stata usata, è fin troppo spesso un pezzo di polistirolo agli occhi dello spettatore. Da precisare però che non è tormentata e chiusa in sé stessa, si dimostra proprio un polistirolo sia a causa delle animazioni e delle battute che dice, sia nei movimenti che compie.

Però c’è qualcosa di estremamente bello e di estremamente brutto nella serie, e vorrei dedicarci un angolino dell’articolo.

 

Cose belle e cose brutte: perfettamente bilanciato?

C’è un personaggio che, più di tutti, è stato caratterizzato: Joel.

Joel è un ex-cadetto e meccanico di Jaeger che lavora per Shane. Lui è l’unico che può sostenere un collegamento neurale e saprebbe riparare uno Jaegar, per questo il nostro boss cattivone lo tiene con sé favorendogli un piccolo occhio di riguardo.

Nella serie lo si vede poco, ma ti ci fanno affezionare, te lo fanno conoscere e ti fanno chiedere cosa farà in futuro, come si evolverà il suo personaggio. E mentre stai ragionando su questo arriva la sberla, il colpo di scena, e lo ammazzano prematuramente in una scena violentissima.

Benché Joel sia stato, nel complesso, il mio personaggio preferito (ma è facile, è quello scritto meglio in tutto Pacific Rim: La zona oscura), vederlo morire così all’improvviso, senza darti il tempo di metabolizzare, di farti capire che è prossimo alla morte, è stato un colpo di scena spettacolare. Non meno rispetto a quelli visti in serie molto acclamate come Berserk e Il trono di spade (fino alla stagione 5).

 

Le sorelle
Organizzazione XIII di Kingdom Hearts, sei tu?

 

Ma se da un lato abbiamo Joel, dall’altro abbiamo Boy, il bambino-kaijū salvato dal laboratorio all’inizio della serie.

Ok, fin dall’inizio ti fanno capire che è legato ai kaijū alieni: gli hanno sparato e la pallottola non gli ha fatto nulla, sembra sia dotato di poteri telecinetici, e riesce addirittura a fermare un pugno dello Jaeger nero che vediamo nella serie; anche lui, un personaggio che ti presentano come uno Jaeger contaminato che ha preso coscienza di sé, e poi lo mandano via dopo la scoperta. Piccola parentesi: è una citazione a Getter Robot, ma non approfondiamo.

Che Boy fosse speciale te lo fanno capire in tutti i modi, ma quando Hayley è in pericolo lo vediamo al suo massimo. Il “ragazzo” si trasforma diventando un enorme kaijū che sembra un Gremlin blu-fluo, tanto forte da riuscire a tenere testa al classe IV nonostante fosse alto la metà.

La domanda non è “chi è questo personaggio”, che viene definito il “kaijū Messia” alla fine della serie. La domanda è “perché!?”. Perché c’era bisogno di farlo trasformare? Non poteva essere un semplice ibrido uomo-kaiju? Un anello di congiunzione che poteva portare la pace? No. Lo si fa trasformare alla Jeeg Robot, così, de botto, senza senso.

 

In conclusione

Pacific Rim: La Zona Oscura si presenta come preannuncia il suo nome, una Zona Oscura tra un’opera scritta bene ed una fatta tanto per il gusto di farla.

Le animazioni non sono delle migliori, ma è un contenuto su cui si potrebbe tranquillamente sorvolare se fosse dotata di una componente narrativa abbastanza forte. Purtroppo però quest’ultima scarseggia e ci ritroviamo di fronte una serie che avrebbe avuto tanto da raccontare, e invece racconta poco e male.

La visione è comunque consigliata agli amanti del franchise, dei kaijū e dei mecha, anche perché la serie è composta da sette episodi di neanche venticinque minuti l’uno. Per capirla meglio vi consiglio di vedere i due film precedenti, che sono attualmente disponibili in blu-ray.

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