Doomsday Clock: Innovazione o ripetizione?

[L’articolo contiene spoiler]

Uno degli eventi fumettistici più chiacchierati del 2020 è stato certamente Doomsday Clock, opera scritta da Geoff Johns e disegnata da Gary Frank. Per la realizzazione di questo progetto ambizioso di casa DC Comics, si è deciso di puntare su un team creativo di prim’ordine, oltre che investire risorse di una certa rilevanza a livello di marketing.

Nomi autorevoli e pubblicità a parte, Doomsday Clock può essere realmente definito la nuova frontiera del decostruzionismo o siamo di fronte all’ennesima operazione simpatia dell’anno? Per capire questo bisogna prima di tutto ragionare sulla struttura del prodotto, ma soprattutto analizzare le principali tematiche su cui si fonda questa storia, che prova a fare intrecciare due mondi dissimili e distanti per concezione.

 

La banalità al tempo del crossover

Nietzsche affermava: “Ciò che fa l’originalità di un uomo è che egli vede una cosa che tutti gli altri non vedono.

Originalità, una parola che oggi viene spesso menzionata al pari di capolavoro, in molti casi senza che vi siano argomenti convincenti per potersene avvalere. Nel mondo del fumetto questa problematica è tuttora vivida, e ci troviamo spesso dinnanzi a testate pubblicizzate in pompa magna come gioielli scintillanti di raro valore.

In particolare l’elemento del “crossover” ha monopolizzato e invaso sempre di più i piani editoriali delle grandi major, infarcendo la continuity di eventi apocalittici e pirotecnici per poter vendere qualche copia in più.

 

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Doomsday Clock non si sottrae a ciò e avvalendosi di tale formula, prova a imbastire non solo un evento che vede ogni supereroe della Terra essere personalmente coinvolto nelle vicende, ma soprattutto va a scomodare i principali protagonisti di Watchmen.

La domanda è proprio questa: possono coesistere nella medesima trama sia il giustiziere perfetto delle sfavillanti storie supereroistiche, sia l’uomo vulnerabile e disilluso che indossa una maschera per seppellire le sue fragilità?

 

L’idea di partenza

Non è la prima volta che si attinge al materiale di Alan Moore. Già con Before Watchmen si era tentato di continuare il percorso dell’autore britannico per riportare in auge l’opera originale, e presentarci delle vere e proprie biografie: passando dai Minutemen ai protagonisti della seconda generazione degli anni ’70 come Rorschach, Ozymandias e compagnia bella.

Una storia, quella di Watchmen, incastonata in un paradigma di propaganda e ideali politici che giocano un ruolo importante per la creazione delle maschere. Un panorama decisamente lontano dal caotico e variopinto marasma dell’universo supereroistico, pieno zeppo di straordinarietà che diventano ordinarie.

 

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Entrando però nello specifico, cosa narra – o prova a narrare – Doomsday Clock? L’idea che ha ispirato Johns (vero innovatore su testate quali Lanterna Verde e Flash) si aggancia alle vicende narrate dalla miniserie di Alan Moore, e nello specifico analizza la sequenza degli eventi catapultandoci nel 1992.

Il perfetto piano di Adrian Veidt alias Ozymandias non è risultato poi così perfetto, finendo con l’essere smascherato dal diario di Rorschach, riaccendendo le vecchie ruggini tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Oltretutto l’assenza del Dottor Manhattan – datosi alla macchia non solo sul suolo terrestre, ma anche nello spazio siderale – priva lo stesso mondo di un equilibratore che possa tenere a freno le schermaglie delle potenze nucleari, facendo precipitare la situazione vertiginosamente.

 

Intuizioni narrative

L’intento dell’autore è di riportare in auge Ozymandias, mediante un pretesto narrativo, per andare alla ricerca di Jonathan Osterman e poter riconsegnare all’umanità quel deterrente necessario in grado di tenere a freno la minaccia atomica. Ovviamente Veidt non sarà l’unico partecipante di questa folle missione: sarà supportato da un nuovo Rorschach e da una coppia di criminali chiamati Mimo e Marionetta, e tutti e 4 si avventureranno alla ricerca del Dottor Manhattan.

 

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Nel frattempo l’universo DC ha le sue belle gatte da pelare. Insistenti voci vedrebbero gli Stati Uniti a capo di un progetto segreto per la nascita di nuovi metaumani, giustificando in questo modo l’esorbitante numero di superuomini presenti sul territorio a stelle e strisce.

Una vera e propria crisi politica che vede anche in questo universo la Russia, e non solo, osteggiare gli Stati Uniti tramite la creazione di task force metaumane: una provocazione che farà decadere l’equilibrio globale fino alla totale interruzione dei rapporti diplomatici tra le parti. Insomma, se da un lato il mondo è minacciato dal nucleare, dall’altro lato della barricata dimensionale le grane sono di tipo supereroistico.

L’intuizione di Geoff Johns quindi è di prendere l’aspro conflitto diplomatico narrato da Moore per rielaborare il concetto di partenza. Nazioni che invece di armarsi a suon di ordigni atomici (come letto in Watchmen) rafforzano la loro posizione con il sovraumano di turno.

 

Quando un’idea irrefrenabile incontra un principio inamovibile

La domanda a questo punto sorge spontanea: perché inerpicarsi in un percorso narrativo che va a scomodare addirittura alcuni dei personaggi più importanti dell’universo di Watchmen? Per rispondere bisogna guardare all’excursus editoriale e alle motivazioni che hanno spinto i piani alti ad avallare una tale scelta, che si ricollega al periodo “New 52”.

Un’iniziativa che non ha mai convinto del tutto, e che dopo il 2016 ha condotto a una differente riorganizzazione denominata “Rebirth” (Rinascita). Un nuovo e ambizioso percorso editoriale per mezzo del quale la tematica del multiverso post-Crisi sulle Terre Infinite è andata sempre più a interagire nelle dinamiche della continuity.

Tuttavia, per poter realmente capire la presunta validità di Doomsday Clock dobbiamo scavare più a fondo. Non possiamo semplicemente soffermarci ad ammirare l’idea, seppure interessante, dell’ennesimo evento che vuole  sconvolgere il quieto vivere delle circostanze.

Il Dottor Manhattan, Superman e Alan Scott (quest’ultimo relegato a principio per innescare l’effetto domino della timeline alternativa) sono i tre cardini metanarrativi su cui poggia l’intera storia. Un affresco che vede soprattutto in Jon e Clark una sorta di yin e yang, o se vogliamo ricollegarci al concetto del Joker di Christopher Nolan “la forza irrefrenabile che incontra l’oggetto inamovibile“.

Una trovata approvata e benedetta dalla stessa DC Comics, che sfrutta questo furbo escamotage per costruire un ponte di congiunzione con gli eventi precedentemente narrati nei 4 episodi di “The Button” (La spilla).

Nello specifico ci verrà presentata una contorta indagine portata avanti da Batman e Flash per riuscire a collegare la misteriosa morte di Eobard Thawne (meglio noto come Anti-Flash), con il ritrovamento di una misteriosa spilla raffigurante uno smile macchiato di sangue (ovvero la spilla del Comico). E per giustificare tutto lo sconvolgimento temporale narrato in “Flashpoint”.

 

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Il Flashpoint è sicuramente il principio di ogni discorso, l’antefatto che scatena la nascita delle future increspature dimensionali e soprattutto temporali; nello specifico la storia ruota intorno a Barry Allen (Flash)  ma oltre a ciò, è l’universo alternativo in cui è ambientata la graphic novel che viene sfruttato come mappatura per riscrivere la futura continuity.

Batman è un violento psicotico, ma soprattutto non è Bruce Wayne – ucciso la notte della rapina – ad indossare i panni del cavaliere oscuro, ma Thomas Wayne che a differenza del figlio non disdegna metodi molto più drastici contro i criminali.

Per quanto riguarda invece Martha è impazzita a tal punto per la perdita di Bruce da avere un pesantissimo tracollo psicologico diventando Joker.

Oltretutto in questo mondo Wonder Woman e Aquaman sono i due leader che capeggiano le rispettive fazioni – Amazzoni e Atlantidei – dando vita a un’aspra guerra che sconvolgerà l’intero pianeta.

Ma il peggiore di tutti i mali è sicuramente il non ritrovamento da parte dei Kent dell’astronave contenente Kal-El (Superman), atterrato a Metropolis invece che in campagna, e catturato inevitabilmente dal governo degli Stati Uniti per studiarlo.

Lo stesso Allen viene usato come agnello sacrificale dall’autore (Geoff Johns) per la spinta propulsiva che cambierà tutto: viaggiare indietro nel tempo e voler a tutti i costi evitare la dipartita della madre ha portato a uno sconvolgimento che ha privato l’eroe scarlatto dei suoi poteri, oltre a ritrovarsi catapultato in una realtà non collegata alle 52 dimensioni.

Egli stesso si dimostrerà l’ultimo fragile pilastro che cercherà con tutte le sue sue forze di sorreggere una struttura ormai in frantumi e priva di qualsivoglia significato razionale che sembra ormai tristemente destinata all’autodistruzione.

 

 

Proprio grazie agli argomenti trattati nei crossover si è potuto prima seminare un terreno fertile (con eventi come The Button e Flashpoint) per far germogliare, in un secondo momento, Doomsday Clock e quindi il decisivo incontro tra i più canonici eroi dell’universo DC con quelli ben più vulnerabili – sotto ogni aspetto – della Vertigo.

Quest’ultimo evento è suddiviso in 12 numeri, e la storia è infarcita di molti momenti critici – grazie a quei trucchi del mestiere che Johns conosce alla perfezione, come il buon uso del turning point – che traggono ispirazione dal solito discorso di decostruzione che in tanti anni ci è stato proposto in tutte le salse: il conflitto del supereroe e delle conseguenti ripercussioni psicologiche, che vedono l’intera comunità metaumana portare a galla le proprie fragilità emotive.

 

Decostruzione: Valore aggiunto o ridondante limite?

In tutto ciò quale sarebbe il ruolo di Manhattan all’interno di Doomsday Clock? Come menzionato precedentemente, Alan Scott – meglio conosciuto come la prima Lanterna Verde di origine terrestre – ha un ruolo principale nella trama, precisamente potremmo definirlo il paradosso della Lanterna.

Scott ha una certa importanza nella storia della Golden Age, per essere stato membro della Justice Society of America (la prima alleanza supereroistica) e aver contribuito alla sua nascita.

 

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È questo il colpo di scena che scatena ogni conseguenza, ponendo l’attenzione del lettore sullo sconvolgimento del continuum innescato proprio da quel paradosso: impedire che la Lanterna e l’umano possano entrare in contatto. Questo specifico evento si ripercuoterà su ogni singola esistenza facente parte dell’universo DC, tra cui lo stesso Clark Kent alias Kal-El alias Superman.

Johns cerca in questo modo di responsabilizzare oltremodo il figlio di Krypton, centralizzandolo a tal punto da divenire esso stesso fautore della conseguente nascita di un’intera generazione di supereroi, in quanto incarnazione del concetto di speranza.

Personalmente reputo che sia proprio questo il limite dell’intreccio, un insipido punto di svolta che in realtà non è una svolta, ma una riproposizione degli stessi concetti, che analizza tematiche fin troppo stucchevoli e banali. Dover scomodare un Dottor Manhattan (che aveva deciso inizialmente di traslocare per sentirsi meno straordinario) e farlo ravvedere grazie alla santa figura dell’ammantato rosso, dimostra come il contenuto in questo momento storico del fumetto mainstream sia privo di reali idee innovative.

L’unica idea realmente interessante, che poteva essere strutturata meglio, è il ruolo di Black Adam nella faccenda della disputa diplomatica dei vari Stati. Un elemento narrativo che, se approfondito, poteva risultare utile per elevare la qualità del racconto.

 

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Il Kahndaq, Stato su cui vigila e governa il guerriero egiziano, diviene la variabile impazzita nella diatriba diplomatica tra la Russia sostenuta dalla Markovia e gli Stati Uniti. Porta infatti ad un sovraccarico di quelle tensioni che Black Adam vuole sfruttare a suo vantaggio per alimentare lo scontento della comunità metaumana, e dare vita alla sua crociata.

Tematica senza dubbio interessante questa battaglia che il villain porta avanti per l’emancipazione del superuomo, ma che non viene approfondita come si dovrebbe, limitandosi a rimanere un tassello nel gioco delle parti.

 

Troppo fumo e poco arrosto

Una volta scavare nelle fragilità dei supereroi era una forza, vuoi anche perché l’argomento veniva centellinato e sviscerato tramite spunti narrativi solidi. Oggi invece decostruire sembra quasi una moda, tirando fuori la crisi esistenziale di turno – la stessa questione Firestorm per come viene trattata e analizzata nel crossover ne è la riprova – per rendere i comics concettualmente più maturi, ma che in realtà stereotipizza la testata.

 

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Tanto per citare due esempi, operazioni come “Crisi d’Identità” di Brad Meltzer (che analizza l’importanza della maschera) o “Città Spezzata” di Brian Azzarello (che pone la lente d’ingrandimento sull’elaborazione del lutto) hanno lavorato proprio sulla vivisezione della psiche in maniera funzionale e convincente.

Trovate promozionali come Doomsday Clock, perché di questo si tratta, invece non fanno altro che riscaldare e condire una minestra ormai troppo annacquata e insipida, puntando a una tipologia di lettore affascinato più dai grossi nomi che dalla sinossi. Dispiace dover affermare questo, perché i presupposti letti su The Button – storia che ci introduce agli eventi del crossover – erano anche buoni come antefatto.

La problematica purtroppo è sorta quando un’intuizione che doveva prepararci a qualcosa di innovativo e rivoluzionario si è rivelata deludente, a causa di una trama che non ha rispettato le aspettative di partenza. Perché ciò che stona non è far scontrare Manhattan e Superman, che ci può anche stare, ma le motivazioni che vengono sfruttate a livello narrativo per giustificare un simile scontro tra titani.

Non basta giustificare il tutto con una teoria, decisamente forzata, che vuole a tutti i costi dimostrare come l’incontro tra Clark e Jon sia un percorso necessario e inevitabile tipo legge di Murphy.