Alla scoperta di Lanthimos

Preciso che non sono esperta della cinematografia di Yorgos Lanthimos, se esperti di qualcosa ci si possa mai definire. L’ho scoperto relativamente tardi quando, dopo l’eco smossa dall’uscita di Povere creature!, ho deciso di colmare la lacuna e ho cominciato a vedere i suoi film, a partire da Il sacrificio del cervo sacro. “Preparati: è bello, ma è tremendamente deprimente” mi dicevano…

Incuriosita, l’ho visto e mi sono trovata davanti un film che colpisce e affonda senza edulcorazioni. Era una domenica di fine gennaio e facevo scorpacciata di film; avevo visto di seguito La casa di Jack di Lars Von Trier e il tanto discusso Saltburn di Emerald Fennell.

Il giorno dopo, sono andata a vedere Povere creature! al cinema che, completamente diverso dal precedente, mi ha spiazzata e invogliata ancora di più a scoprire il regista greco. E così, recuperati su diverse piattaforme, ho visto (in ordine) il tanto acclamato La favorita, il cortometraggio Nimic disponibile su Disney+ e i visionari Dogtooth e The lobster.

 

Yorgos Lanthimos
Yorgos Lanthimos

 

Scrivo l’articolo qualche giorno dopo aver visto l’attesissimo Kinds of kindness e posso dire di essermi fatta un’idea del regista che ha portato la cinematografia greca a sfilare sul Red Carpet e ha dato il via a un genere di film che meritano una visione, almeno una volta nella vita. Anche perché, per molti di questi, una volta basterà.

Ammetto di aver conosciuto Lanthimos quasi al contrario perché sono partita dal film più angosciante, sono passata subito al suo lato più bizzarro per poi tornare alle atmosfere più fredde e asettiche. Questo mi ha portato a dover ricostruire un po’ la sua carriera e non vi nascondo che l’articolo è anche uno spunto per farlo meglio. Insomma, vi uso come cavie per provare a studiare e capire nel profondo, se mai fosse possibile, un regista che ha tanto da dire e finora non ha deluso.

Nell’articolo, dunque, vi parlerò dei suoi film, senza spoiler, per darvi un quadro dell’evoluzione del regista che, dopo una breve inversione di marcia, è tornato agli albori con l’ultimo film ancora nelle sale.

Chi è Yorgos Lanthimos

Yorgos Lanthimos, il padre della Greek Weird Wave, l’ondata di film disturbanti in modo quasi assurdo di cui non potrete fare a meno, nasce ad Atene nel 1973. Dopo aver studiato regia alla Stavrakos Film School, dirige il suo primo lungometraggio con il maestro e mentore Lakis Lazopoulos, presentatore e regista tra le prime cento celebrità greche secondo la rivista Forbes.

Il mio migliore amico del 2001 è un film banale e affatto vicino allo stile del Lanthimos che conosciamo, il cui esordio ufficiale è rappresentato da Kinetta, presentato al Toronto International Film Festival nel 2005. Nichilista ed essenziale, parla dell’incomunicabilità e della solitudine profondamente radicata nell’individuo che non porta con sé nemmeno un nome, ma solo anonimato. Con questa pellicola, Lanthimos si presenta al mondo intero e si prepara ai lungometraggi di cui vi parlerò più avanti.

Della sua vita privata si sa davvero poco a parte che è sposato con l’attrice francese Ariane Labed vista in diverse pellicole, tra cui Alps (2011) e The Lobster dello stesso Lanthimos, e nel terzo episodio della quinta stagione di Black Mirror. I due si sono conosciuti sul set di Attenberg, film del 2010 diretto da Athina Rachel Tsangari, selezionato per rappresentare la Grecia agli Oscar del 2012 e meritevole della Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile destinata alla stessa Labed.

 

Lanthimos premiato

 

Apro una breve parentesi sulla cinematografia greca che, negli ultimi anni, ha iniziato a seguire una strada molto particolare che l’ha portata a far parlare di sé grazie a Lanthimos sicuramente, ma anche a registi del calibro di Alexandros Avranas (Miss Violence, 2013, che vi consiglio caldamente di recuperare) o dei meno conosciuti, ma ugualmente validi, Babis Makridis (L – Un uomo, un auto e un barattolo di miele, 2012 e Miserere, 2018) e la stessa Tsangari.

Era forse dai tempi di Theo Angelopoulus che non si parlava della Grecia, la culla della drammaturgia dove per primo si è parlato di tragedia e catarsi attraverso la visione della messinscena. Era stato Aristotele, filosofo greco, a canonizzare il genere e indicarlo come unico modo per purificare l’uomo dalle proprie passioni poiché il dramma, imitando la realtà e riproponendo eventi gravi e luttuosi, instillava nello spettatore un sentimento di pietà e terrore. Dalla paura di incappare in quegli errori portato a teatro, dunque, scaturiva un comportamento probo e onesto.

Il teatro diventava così anche un mezzo per controllare la popolazione e fare in modo che tutto precedesse per il verso giusto nel pieno rispetto delle regole. Tutto questo per dire che il retroterra culturale su cui si muove Lanthimos ci appartiene ed è il pilastro su cui si è fondata ed evoluta la nostra società. Chi, oggi, esce dalla sala o la abbandona a metà film, dovrebbe pensare anche a questo e cercare di arrivare al cuore delle cose. Sempre.

Tutto comincia con Dogtooth

 

Dogtooth

 

Vincitore della sezione Un Certain Regard della sessantaduesima edizione del Festival di Cannes e candidato ai Premi Oscar come Miglior film straniero, Dogtooth (2009) rappresenta uno spartiacque nella cinematografia greca e nel cinema in generale. Lanthimos porta nelle sale un film freddo e surreale che sulle prime disorienta, poi disarma.

La trama è apparentemente semplice: una famiglia, composta da madre, padre, un figlio e due figlie, vive in una villetta immersa nel verde ai margini della città. L’obiettivo dei genitori è tenere i figli lontani dalla società, evitando qualsiasi contatto con l’esterno e costruendo una sorta di teatrino dell’assurdo in cui gli aerei che volano nel cielo non sono altro che giocattoli-premio lanciati di nascosto sul prato, previo corretto comportamento dei ragazzi. Questi vivono in un mondo fittizio in cui anche le parole sono distorte per allontanarle dall’idea di peccato che portano intrinsecamente dentro.

Il mare è la sedia in pelle con braccioli in legno come quella del salotto, l’escursione è un materiale durissimo per fare i pavimenti, la carabina è un bellissimo uccello bianco, mentre la vulva diventa la tastiera. La repressione linguistica chiude, in questo modo, ogni contatto con il mondo esterno.

Apparentemente, la villetta in cui abita la famiglia sembra un moderno Eden, immerso nel verde, con una grande piscina in cui nuotare e tenersi in forma; in realtà è una prigione in cui il figlio adolescente è costretto ad avere rapporti con la donna che il padre paga per le sue prestazioni e, quando questa viene meno per aver traviato una delle due figlie, il ragazzo sarà spinto tra le braccia della sorella.

 

Dogtooth

 

A sconvolgere non è l’incesto, ma la naturalezza con cui i genitori spingono i figli a fare sesso tra di loro e, soprattutto, la totale freddezza con cui i due lo fanno perché, di fatto, non hanno idea di cosa stiano facendo. Non conoscono il sesso perché la repressione adoperata fa sì che l’atto diventi mero sfogo di pulsioni che, a una certa età si fanno sentire e devono essere soddisfatte.

A inquietare è la chiusura dei ragazzi in una sorta di infanzia che nega la crescita e il raggiungimento della maturità, come se questo significasse macchiarsi indelebilmente. La drammatica messinscena è tenuta in piedi dal padre che esercita la sua potestà a tutto tondo anche sulla moglie che è un po’ vittima un po’ complice; l’unico contatto che la donna ha con il mondo esterno è dato da un telefono che tiene ben nascosto nel comodino della camera da letto.

Questa folle lobotomia però, forse, muove curiosità nei confronti dell’esterno che vorrà essere indagato dalla figlia maggiore che cercherà un pretesto per evadere. Ma si tratta di liberazione o voglia di scoprire l’oltre? Alla maniera di Lanthimos, nulla ci viene spiegato e lo spettatore resta inebetito con tante domande in sospeso.

Vietato essere single: The Lobster

 

The lobster

 

Cosa succederebbe se fosse vietato, pena la trasformazione in un animale prescelto, essere single? Sareste rinchiusi in un resort per quarantacinque giorni per trovare l’anima gemella e sareste sottoposti a delle battute di caccia notturne per eliminare quanti più solitari. Questi sono diseredati che si sono ritrovati nei boschi per sfuggire a una società che impone l’essere parte di una coppia e hanno bandito l’innamoramento. Due facce di una stessa medaglia, che altri non è se non la società rigida su cui l’individuo deve ritagliarsi alla perfezione.

Questa è la trama del quinto lungometraggio di Lanthimos uscito nelle sale nel 2015 e vincitore del Premio della Giuria a Cannes. Ancora una volta, una trama semplice su cui si innestano tematiche profonde e alienanti in cui a dominare sono i concetti di gabbia e sesso. Questa volta ci sarebbe anche l’amore (se volete percepirlo, guardate bene gli occhi da cerbiatto di Colin Farrell quando non è terrorizzato da chi vuole ucciderlo), ma non è libero di sbocciare.

La storia che ci racconta Lanthimos è aperta (uno dei motivi per cui il pubblico non ha particolarmente gradito) e disseminata di domande le cui risposte vanno ipotizzate e ricercate nella filmografia del regista. Avete capito bene, se volete cercare di capire The lobster dovete conoscere chi lo ha diretto e, per far questo, occorre vedere i suoi film. La visione del rapporto di coppia che Lanthimos offre è sicuramente estrema e calata in un tempo e un luogo non specificato che disorienta lo spettatore, ma quanto mai reale.

 

The Lobster

 

Vorremmo forse negare che la vita non sia noia, solitudine, ansia e continua repressione? Siamo liberi di agire come vogliamo senza pensare alle conseguenze, alla morale e a quello che l’etica impone? La risposta è no, non siamo liberi e sì, la vita non è il Drive in. Guardiamo film romantici perché il romanticismo manca nella vita vera e ci sentiamo momentaneamente appagati, per poi tornare a pensare che non tutte le storie finiscono bene, anzi   …per Lanthimos non finiscono affatto.

Ci lascia inebetiti nella toilette assieme a Colin Farrell e allunga poi il campo sulla controparte femminile Rachel Weisz che lo attende. Coroneranno il loro sogno d’amore forzato? Si ameranno in clandestinità? Oppure ognuno di loro sarà abbandonato al proprio destino, qualunque esso sia?

Il sacrificio del cervo sacro è una piccola perla

Questo è il Lanthimos che preferisco, a tratti agghiacciante e disumano, forse perché riprende il sacrificio di Ifigenia di cui parla Euripide nella tragedia greca Ifigenia in Aulide.

L’algida coppia KidmanFarrell, reprimendo ogni emozione, sembra non provare sentimento alcuno davanti agli eventi inspiegabili che colpiscono i loro figli. Su di loro incombe una maledizione che li farà cadere come pedine di un gioco a patto che qualcuno sia sacrificato. Marionette nelle mani del burattinaio Keoghan che, con il suo sguardo inquietante, si conferma un bravo attore, tagliato per interpretare ruoli ambigui e per nulla rassicuranti.

Le tematiche care al regista sembrano tornare: la repressione, sia emotiva che fisica, di ciò che l’uomo dovrebbe, per sua natura, provare ed esperire; la claustrofobia degli ambienti in cui i personaggi si muovono coadiuvati da una fotografia spenta e una scenografia minimal che non distrae lo spettatore, anzi, gli permette maggiore concentrazione per capire che manca qualcosa e molto altro non va.

 

Il sacrificio del cervo sacro

 

Ed è questo qualcosa che manca che incombe sui caratteri così tanto fino a espandersi e bucare sullo schermo. Credo che, con Il sacrificio del cervo sacro (2017), tocchi l’apice del suo modo di fare cinema: nessuna bizzarria, solo lucida freddezza nell’affrontare una situazione critica e prendere provvedimenti per porvi fine. In questo ricorda tanto Eyes Wide Shut del 1999 e non credo sia un caso che faccia parte del cast Nicole Kidman che ha lavorato all’ultima controversa opera del maestro Kubrick.

Sembra di rivederla nei panni di Alice Harford che si offre al marito e alla vita sotto anestesia totale, senza battere ciglio, col volto inclinato tipico di chi attende giudicando. Per Lanthimos interpreta l’oftalmologa Anna Murphy, moglie del cardiochirurgo Steven (il già citato Colin Farrell, qui alla seconda collaborazione con il regista greco) e madre di due bambini, chiusa nell’ordinarietà che trascina con sé una massiccia dose di apatia (da intendere come incapacità prolungata o abituale di partecipazione o di interesse, sul piano affettivo o anche intellettivo).

A irrompere nella quotidianità un mefistofelico sedicenne che, facendo leva sulle debolezze del padre di famiglia, cercherà la sua vendetta chiedendo un logorante sacrificio. Rispetto alla tragedia euripidea, nel film la posta è raddoppiata: se Artemide chiedeva ad Agamennone di sacrificare sua figlia Ifigenia per l’offesa subita, il giovane Martin (Barry Keoghan) chiede a Steven di immolare entrambi i suoi figli. Toccherà porre fine al subdolo gioco, ma come? Scegliendo con consapevolezza o affidandosi al caso e lasciando operare il destino? A voi scoprirlo.

La favorita: una Weisz da paura

Per la prima volta dopo Il mio migliore amico, Lanthimos non scrive la sceneggiatura del suo settimo film, ma si affida a Deborah Davis e Tony McNamara, senza perdere l’ironia pungente che caratterizza le sue opere. Nonostante ciò, l‘acclamatissimo film del 2018 diverge dalle precedenti perché il regista abbandona drammi mentali per fornirci uno spaccato di vita di corte inglese al tempo della guerra (una delle tante) con la Francia in pieno Settecento.

La favorita rappresenta un notevole cambio di rotta perché si respira un’aria decisamente più leggera, nonostante non manchino temi ambigui quali macchinazioni politiche e servigi sessuali per scalare la piramide sociale e accaparrarsi un posto in prima fila nell’alta società. Adattando un radiodramma della BBC, il regista dirige due attrici del calibro di Emma Stone e Rachel Weisz nei panni delle cugine Abigail Hill Masham e Sarah Jenning Churchill che si contendono i favori della regina Anna di Gran Bretagna, interpretata dall’attrice premio Oscar Olivia Colman.

Sembra di vedere un moderno Eva contro Eva (Joseph L. Mankiewicz, 1950), attualizzato e portato all’estremo ricorrendo al sesso pur senza mostrare nulla di esplicito. Emma Stone si spoglia dei candidi abiti indossati in La La Land (Damien Chazelle, 2017) per indossarne di più voluttuosi e dare avvio a una lunga collaborazione con Lanthimos che si spingerà sempre oltre, abbattendo le barriere del tabù (vedi Povere creature!). Ma l’attrice che colpisce davvero e che già aveva lavorato con il regista in The lobster è Rachel Weisz.

 

Rachel Weisz
La favorita

 

Dopo aver mosso i primi passi in Reazione a catena del 1996, si è fatta conoscere dal grande pubblico con quel film a cui tutti quelli della mia generazione sono legati con affezione, La mummia del 1999. Tra i tanti registi con cui ha lavorato, annoveriamo Darren Aronofsky (The fountain, 2006) e Paolo Sorrentino (Youth, 2015), quando nel 2015 viene provinata da Lanthimos per girare The lobster. Tre anni dopo, sarà chiamata a interpretare uno dei personaggi più influenti della storia inglese, migliore amica e consigliera della regina Anna Stuart, Lady Churchill duchessa di Marlborough.

Le cronache storiche la dipingono come una donna violenta e autoritaria che sì è imposta sull’amica d’infanzia con facilità. La regina Anna, infatti, era una donna debole che si appoggiava in tutto e per tutto alla Churchill fino a conferirle il più alto dei titoli, quello di Lady of the Bedchamber e permetterle di scalare in sordina i vertici della società, acquisendo titoli nobiliari per sé e per il marito. La situazione cambiò all’arrivo di una nuova dama di corte, Abigail.

L’attrice ha dato un volto perfetto a quello che la storia ci racconta, nonostante Lanthimos si sia preso diverse licenze in merito alla storicità dei fatti. Ma poco importa, l’intenzione non era quella di girare un documentario storico, quanto ribaltare preconcetti e falsi miti sulla storia stessa, perché i reali erano esseri umani come noi che si annoiavano e, per ingannare il tempo, si divertivano a lanciare frutta addosso a uomini seminudi.

Per l’interpretazione, Rachel Weisz ha ottenuto il BAFTA come migliore attrice non protagonista perché è stata sensazionale nel passare dall’essere un’amica dolce e comprensiva a una donna assetata di vendetta e obbligata dalle circostanze a cedere il passo al candore della giovinezza. Il ghigno beffardo delle scene finali si carica di sconfitta, ma anche di liberazione perché (la storia ci insegna) Abigail Marshall l’ha solamente condotta sulla strada della liberazione, lontana da una donna ormai pazza e bisognosa di capricciose attenzioni.

 

la favorita

 

Prima di andare avanti, apro una breve parentesi. Con La favorita, come dicevo, Lanthimos cambia registro e questa linea sarà seguita da Povere creature!. Perché? Probabilmente per avvicinare il grande pubblico alle suo opere e farsi conoscere meglio nel panorama mainstream (concedetemi il termine). Non puoi farti apprezzare se la gente sa poco di te e, purtroppo, bisogna approdare a Hollywood. La favorita mi sembra quasi un primo funzionale approccio per cui si suole parlare di secondo Lanthimos, continuato e portato a compimento con il successivo e vincitore di Oscar Povere creature!.

Nonostante questa idea del tutto personale, credo che dietro ci sia stata anche la voglia, da parte del regista, di sperimentare nuove collaborazioni, nuove soluzioni e mettere alla prova le competenze attoriali di alcuni nuovi divi del cinema. In questo senso, Emma Stone è, ad oggi, l’attrice che sta promuovendo di più.

La conferma di questa mia teoria arriva con Kinds of kindness, pellicola (come leggerete più avanti) che torna ai vecchi fasti a partire dalla sceneggiatura, affidata al vecchio amico Efthymis Filippou. Adesso che tutti parlano di Lanthimos, il filmmaker può permettersi di tornare a trattare tematiche a lui care nel modo che più gli è congeniale.

 

Regista e sceneggiatore
Lanthimos e Filippou

Nimic. Sono tra noi

Nimic (2019) esula dal panorama dei lungometraggi perché è un corto e non potete immaginare cosa possa combinare Lanthimos in dieci minuti. Voglio parlarvene perché, se mai doveste recuperarlo, lo troverete strettamente collegato al secondo episodio di Kinds of kindness. Nimic è un puro esercizio di stile che si muove tra incubo e allucinazione, presentato prima al Festival di Locarno poi al XVIII Ravenna Nightmare Film Fest e diretto e scritto dal regista stesso.

Già a partire dal titolo possiamo immaginare di cosa parlerà il cortometraggio, infatti il termine rumeno nimic significa nulla, mentre in inglese è un neologismo derivato dalla crasi tra le parole manic e mimic, rispettivamente paranoia e mimesi degli altrui comportamenti.

La pellicola segue l’ordinaria giornata del violoncellista Matt Dillon che, di ritorno a casa, è inseguito da una misteriosa sconosciuta che ripete pedissequamente le sue parole e i suoi gesti e da questa sarà sostituito nell’ambiente familiare e lavorativo in un loop infinito e depersonalizzante. A disturbare è il pensiero di essere sostituibili nei ruoli che ci cuciamo addosso, e tale inquietudine ci porta a guardare l’altro con timore o, peggio ancora, sbarrare l’accesso a ciò che sentiamo come nostro: lavoro, famiglia, coppia.

Lanthimos si serve di un attore che ben si presta a ruoli in cui emerge la destabilizzante zona d’ombra che l’individuo tende a nascondere. Dillon, infatti, si era già distinto per l’ottima performance nel film che Lars Von Trier aveva definito come la pellicola più brutale che celebra l’idea che “la vita sia crudele e spietata“, La casa di Jack del 2018.

 

Scena di Nimic
Nimic

Povere creature! Perché il sesso non sia un tabù

Nonostante Oppenheimer di Christopher Nolan abbia trionfato all’ultima edizione degli Oscar, non si può non riconoscere la grandezza di Povere creature!. Centoquarantuno minuti di puro godimento per gli occhi con cui il regista porta a compimento il lavoro in costume cominciato con La favorita. Visivamente è un lavoro ineccepibile, un’esplosione di colori premiata come miglior scenografia, costumi, trucco e acconciature.

Dietro alla celebrazione dell’arte e del cinema come potente mezzo di espressione, trova posto un messaggio di libertà e indipendenza forte, perpetrato da Bella Baxter che trova la sua forma perfetta in Emma Stone. Frutto degli esperimenti del padre putativo, sentirà l’impulso irrefrenabile di uscire dalla gabbia dorata che è la sua casa e conoscere il mondo per capire se stessa.

Il desiderio di evadere coincide con la scoperta del sesso che diventa l’innesco che porterà la donna ad affermarsi come individuo e trionfare sull’uomo e sui dogmi imposti dalla società. Il percorso, lungo e lastricato di insidie, comincia in una Londra in bianco e nero, un po’ goth un po’ steampumk, dove la protagonista si muove sotto l’ala protettrice del suo creatore Godwin Baxter (Willem Dafoe). A caratterizzarla è la curiosità per quello che la circonda e la sua andatura incerta tipica dei bambini.

 

Povere creature
Povere creature!

 

Bella, però, non è una bambina, ma una donna e lo scoprirà ben presto con oggetti vari mediante cui si provocherà piacere. A supportarla nella ricerca e sperimentazione, l’affascinante tombeur de femme Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) che le farà conoscere il sesso nei suoi anfratti più reconditi.

Da qui in poi, la donna prenderà coscienza di sé e delle sue facoltà, da creatura e figlia si trasformerà in persona e inizierà a muovere i primi veri passi, non più incerti. Affermazione e liberazione, questo rappresenta la pellicola che ripropone in chiave grottesca i capolavori di Mary Shelley e Carlo Collodi. La carta vincente di Lanthimos sta nell’evitare moralismi anzi, per dirla alla maniera della psicoterapeuta Flavia Salierno, Povere creature! è un “puro processo primario” che si muove tra nichilismo, ironia e furiosi sobbalzi.

Con Kinds of kindness si ritorna ai vecchi tempi

La notizia dell’ultimo film di Lanthimos è arrivata in piena fibrillazione da Oscar perché è stato annunciato a meno di sei mesi dalla premiazione. Fin dal rilascio del teaser trailer sulle note di Sweet dreams (are made of this) degli Eurythmics, si è intuito un ritorno alle vecchie glorie che hanno portato il regista ad affermarsi nel panorama cinematografico mondiale.

Il cast principale è direttamente preso da Povere creature!, a cui si aggiunge il camaleontico Jesse Plemons, che si è visto di recente accanto alla moglie e collega Kirsten Dunst in Civil War (Alex Garland, 2024) e la thailandese Hong Chau, scoperta da Paul Thomas Anderson nel suo Vizio di forma del 2014.

Quattro personaggi per tre storie: La morte di R.M.F., R.M.F. vola, R.M.F. mangia un sandwich. Servilismo, complottismo e fanatismo sono le tematiche principali degli episodi che trovano il loro trait d’union nel misterioso personaggio di R.M.F. di cui non sapremo mai nulla, ma comparirà come il silenzioso spettatore di vicende tipicamente alla Lanthimos.

 

Kinds of kindness
Kinds of kindness

 

Precisiamo subito che alla sceneggiatura torna Efthymis Filippou che aveva già lavorato con il regista fino a La favorita e che rimanda direttamente alle atmosfere dei suoi primi film, ribaltando in qualche modo quanto visto in Povere creature!. Infatti, laddove il Frankenstein doveva liberarsi del suo creatore, qui i mostri collaborano e sono complici di un sistema bacato. Altro che povere, in questa pellicola le creature sono miserabili, asservite a sedicenti manager, imbrigliate in teorie del complotto che nessuno asseconda e schiave di sette che si spingono oltre Natura.

Nonostante l’apparente distanza dal precedente film, l’ultimo episodio di Kinds of kindness (che va visto oltre i titoli di coda per la scena post credit) sembra collegarvisi perché Emma Stone cercherà di infondere la vita proprio come aveva fatto con lei Willem Dafoe in Povere creature!. Lanthimos ci fa girare in tondo in un loop infinito che ingabbia e non ci lascia via di uscita, ribalta per poi tornare sui suoi passi per dimostrare quello che realmente siamo o possiamo essere.

Esseri che cercano di affermarsi come individui e che, davanti all’inefficacia dei loro mezzi, sono disposti ad annullarci e sacrificarci senza anestesia alcuna. In questo maledetto gioco della vita, la donna è sempre più forte dell’uomo anche se in questa pellicola i ruoli tra i due sessi sembrano molto più equilibrati, almeno se si pensa al chiaro messaggio femminista veicolato dal film del 2023.

Quale futuro per Lanthimos

In questi giorni è stato annunciato il nuovo film dell’autore greco, le cui riprese cominceranno quest’estate e vedrà nel cast ancora Emma Stone e Jesse Plemons. Si intitolerà Bugonia e sarà sceneggiato da Will Tracy, che ha all’attivo pellicole come The Menu del 2022 e due serie tv, Succession del 2018 e la recentissima The Regime – Il palazzo del potere con Kate Winslet.

Il film parlerà di due teorici della cospirazione che rapiscono l’amministratore delegato di una grossa multinazionale, convinti sia un alieno inviato sulla Terra per distruggerla. La sceneggiatura non è originale perché la storia trae spunto dalla commedia fantascientifica di stampo ecologista del 2003 Save the green planet!, diretta dal sudcoreano Jang Jun-hwan. Lanthimos abbandona la casa di produzione Searchlight per lavorare con la Focus Features il cui presidente Peter Kujawsky si è detto entusiasta di lavorare con un cineasta talentuoso e innovativo come il greco.

Fanno ben sperare non solo il cast parziale e il regista che lo dirigerà, ma anche il supporto alla regia del giovanissimo Ari Aster che con le sue tre pellicole, una più bella dell’altra, si è imposto tra i grandi del cinema contemporaneo: Hereditary – Le radici del male del 2018, Midsommar – Il villaggio dei dannati del 2019 e Beau ha paura del 2023. Con queste premesse, non ci resta che aspettare e recuperare la filmografia completa del regista per aggiungere altri importanti tasselli e provare a entrare nella sua geniale mente.

 

Foto di Lanthimos con Stone e Plemons
Il cast di Bugonia